Che dire? L’incostanza ha preso il sopravvento. Non me ne vogliate. Sono entrata nella fase dell’astrazione. Lasciate, comunque, che in questo stadio di vuoto improduttivo vi racconti del mio grasso, spassoso e alcolico matrimonio ebreo-russo.
Lo scorso week-end sono andata a Philadelphia. La città? No, niente di speciale, piuttosto noiosa ma l’evento che mi ci ha portato e’ stato il matrimonio di un amico.
Ecco, tanto per cominciare vi racconto dell’hotel che ho prenotato perché segnalato nelle partecipazioni di matrimonio.
Una volta entrata nella stanza assegnatami, sono stata piacevolmente sorpresa dalla “bufera infernal, che mai non resta”, prodotta da un potentissimo condizionatore per ambienti industriali installato nella stanzetta dei sette nani. Mi aspettavo di trovare Minosse seduto sul water, invece ho trovato del filo interdentale usato sul lavandino e i peli di un levriero afgano. Decido, quindi, di spegnere il tifone e fare una pennichella prima di affrontare il tour de force dello sposalizio. Non appena sollevo il copriletto, mi si presentano alla vista delle sospette chiazze marroni che ricoprono i cuscini e le federe, come se qualcuno si fosse divertito a defecarci sopra prima di lasciare l’alloggio.
Entusiasta dell’inizio esilarante, mi appresto a cercare la cameriera ai piani. Dopo aver ispezionato anche gli sgabuzzini, incrocio una coppia di indiani di età avanzata, quasi in stato di decomposizione, che spingono un carrello colmo di asciugamani lerci. Li avvicino con un sorriso e gli spiego l’accaduto. I due sciamani continuano a sorridere mostrandomi file di denti con i colori dell’autunno e capisco che parlano solo l’urdu e penso che la comunicazione verbale sia praticamente impossibile. Li accompagno, quindi, nella mia stanza e illustro lo scempio. Capiscono. Prostrandosi e elargendo espressioni tratte dalla commedia dell’arte, si avviano al recupero di materiale degno del prezzo della camera.
Non c’e’ più tempo per ponare.E’ tempo di rendersi decenti e affrettarsi verso la sede del grande evento. Il tutto si svolgerà al ristorante, cerimonia compresa così, se mi viene fame – penso – afferro un tramezzino dal buffet e lo ingurgito senza farmi notare.
All’arrivo, agli uomini sbattono sulla testa la kippa’ in pelle di renna artica. Le donne sono addobbate come se dovessero andare al Gala’ della Croce Rossa monegasca: abiti lunghi e luccicanti, solidificati da strati di paillettes, perle, zirconi e oggetti contundenti e acconciature alla Maria Antonietta, quando aveva ancora la testa sul collo.
La tenda con l’altare e’ stata sistemata proprio accanto al tavolo dei dolci vicino ad un cabare’ di cannoli siciliani e bomboloni alla panna.
Arriva il rabbino, naso adunco e gli occhi ravvicinati da primate. Inizia a cantare, emettendo note in cirillico sulle tonalità di Bocelli.
Entrano le damigelle d’onore, allestite per l’occasione come infante alla corte di Isabella di Spagna, e cospargono il tappeto rosso di petali di rosa. Arrivano i testimoni e poi lo sposo con il frack grigio accompagnato dai genitori in evidente stato di commozione emotiva, poi la sposa: abito bianco a baldacchino, con guanti ascellari e il velo della Madonna di Loreto.
A metà strada verso l’altare, la mamma alza il velo e sussurra poche parole:
- scappa! Ho già chiamato il taxi.
Per ricreare l’effetto Siberia, tanto cara alla popolazione russa, al posto dell’aria condizionata sono stati usati i cannoni per la neve artificiale, cosicché il solo aprire la porta delle cucine sviluppa un gradevole blizzard che rinfresca l’aria. Per un momento ho la sensazione che tutti i liquidi del mio corpo si siano congelati. Mi faccio un bellini.
La band, sistemata su di un palchetto alla destra dell’altare, scenograficamente allestito con cielo stellato nella notte di San Lorenzo, accompagna le evoluzioni canore del rabbino che canta a squarciagola.
Gli sposi si scambiano gli anelli e i voti. Alle incaute dame che non hanno usato il rimmel waterproof, scendono rivoli neri.
Tutti cantano e si preparano alla grande abbuffata.
Le tavole, sontuose e opulente, sono già imbandite con venticinque antipasti. Un tipo, che assomiglia tanto a Denny DeVito in sovrappeso e ha una chierica ad emulo di quella di San Francesco d’Assisi, siede al mio tavolo e pasteggia con una bottiglia di cognac e una di Chateau Lalande-Borie, alternando le sorsate da un bicchiere all’altro. Dopo un po’ di questo altalenare, assume la colorazione di un tedesco dopo una giornata al mare. Man mano che avanzano le portate, si alza il volume della musica. Il cantante, che sembra un sopravissuto al disastro di Chernobyl, ci diletta con alcune canzoni popolari russe e brani di Charles Aznavour. Dopo due ore di portate continue, con orrore mi accorgo che siamo fermi agli antipasti. Il fegato sta urlando: pietà! e mi chiede l’amaro Giuliani. Una vecchia arpionata ad un tripiede si scatena in pista e falcia uno dei camerieri.
Arrivano i Pel’meni e il DeVito russo brinda con una nuova bottiglia di cognac. Nasdrovia! Nonostante abbia uno dei cannoni ad aria gelata puntato sulla schiena, e’ sudato come un cavallo. Ormai la musica ha preso il sopravvento e affatica la comunicazione. Il sopravissuto a Chernobyl smette il microfono e piazza un nastro pre-registrato. I bassi mi stanno prendendo a pugni lo stomaco con la forza di un martello pneumatico. Una massiccia cacofonia ci assedia quando, come una sciabolata, mi arrivano all’orecchio le note di “Sono un italiano” di Toto Cutugno. A questo punto mi fermo e vi dico che la faccenda si e’ fatta incresciosa quando, in seguito, e’ partita anche “Ti amo” di Umberto Tozzi.
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